CULTURA

RUBRICA: EVASIONE CULTURALE A CHILOMETRO ZERO E AD EURO UNO.

Viviamo nella storia, nell’arte e nella bellezza: tutto è a portata di mano. Bisogna soltanto riscoprirlo perché tutto è già intorno a noi e fruibile a costo pressoché zero; il costo di un caffè.

PERCHE’ I BASTIONI ED I FOSSATI DI CAPUA DOVREBBERO ESSERE SEMPRE IN ORDINE?

A 67 anni di età si possono fare dei bilanci. I bastioni della fortezza di Capua -perché la nostra era una città fortificata- li ho visti quasi sempre in stato di abbandono. I fossati, dal dopoguerra ad oggi, hanno vissuto, invece, momenti altalenanti, essendosi alternati periodi di abbandono a periodi di rilancio. Per la verità sono stati più lunghi i periodi di degrado che quelli di recupero. Attualmente, da diversi anni, continua la fase di stallo, con i fossati impraticabili a causa di una fitta vegetazione spontanea.

Ho cominciato ad apprezzare i bastioni ed i fossati a seguito delle visite organizzate dai volontari delle associazioni di protezione civile. Grazie a quelle escursioni, mirabilmente condotte da giovani volenterosi, verso i quali va il nostro apprezzamento ed incondizionato riconoscimento per la meritoria azione altruistica svolta a vantaggio della cittadinanza, ho potuto visitare, assieme a tanti altri capuani (e non), dei rifugi sotterranei e delle gallerie di strategico e defilato collegamento con i sottostanti fossati. I passaggi sotterranei e i cunicoli appaiono da tempo abbisognevoli di urgenti e non più procastinabili lavori di riqualificazione, per scongiurare il pericolo di crolli; cedimenti prevedibilmente incombenti nel breve/medio periodo, anche ad un occhio inesperto, causa persistenti infiltrazioni di acqua piovana e visibili fessurazioni delle volte dei cunicoli provocate dalle radici della soprastante e fitta vegetazione arborea.

Una volta raggiunti i fossati non si può non rimanere colpiti dalla grandiosità delle opere di fortificazione: spazi immensi inducono il visitatore ad un momento di riflessione sui lavori occorsi nei secoli precedenti per operare una così rilevante e maestosa opera di ingegneria idraulica, idonea ad allagare e rendere inespugnabile la città sull’unica perimetrazione non lambita dal corso del Volturno.   

L’occhio del visitatore, di primo acchito, viene rapito dall’insieme; poi, nelle visite guidate, se si guarda meglio, anche sulla scorta delle premurose e diligenti indicazioni dei volontari della protezione civile, si scorgono gli accessi che dai fossati adducono ai bastioni, ingressi posizionati con angolazione tale da risultare pressoché invisibili dall’alto ai nemici del tempo andato, durante gli eventuali assedi.

Se si ha tempo a disposizione e si è dotati di spirito di osservazione, si ha la possibilità di scoprire, incise nella muratura dei fossati, le generalità, i messaggi ed i graffiti dei soldati che oltre un secolo fa affollavano quei fossati e la viciniore piazza d’armi, in occasione delle rituali esercitazioni militari. Scritte fissate nella pietra viva, probabilmente con le baionette dei moschetti in dotazione ai giovani militari dell’inizio del secolo passato, a pochi decenni dall’unità d’Italia: nomi e messaggi, trasudanti nostalgia, perché allora il servizio di leva aveva una lunga durata ed era svolto lontano da casa, allo scopo di amalgamare le popolazioni della nascente Italia. Messaggi consegnati al futuro, ma ormai nascosti dalla vegetazione incombente che tutto copre e degrada.      

Perché ho posto l’accento sui bastioni, non più riconoscibili come tali, stante la fitta vegetazione che li ricopre, e sui fossati? Presto detto!

Nell’anno 1860, a Capua, ha avuto termine la spedizione garibaldina, epilogo che i libri di storia scolastici sono soliti liquidare in meno di tre righi, chiosando che, nella detta piazzaforte, l’esercito borbonico, colà di stanza, era stato sconfitto e Garibaldi si era recato a Teano per incontrare Vittorio Emanuele II, per salutarlo come re d’Italia e consegnargli il territorio appena conquistato.

Tutti i libri di storia, eccetto alcuni, raccontano “la battaglia del Volturno” -così venne denominato quel fatto d’armi- seguendo il punto di vista dell’esercito garibaldino che era schierato tra Santa Maria C.V., Sant’Angelo in Formis e San Tammaro, ovvero a sud di Capua. Quell’impostazione fu poi seguita dalla casa Savoia e dagli storici risorgimentali, che non hanno mai chiarito che, nell’assedio di Capua, l’Esercito Meridionale –così veniva, ormai, denominata la forza armata capitanata da Garibaldi- era pressoché simile a quella (residua) nella disponibilità di Francesco II, l’ultimo re della dinastia dei Borbone. 

Le manovre militari condotte tra i bastioni (e i fossati) di Capua e le località suddette a sud di Capua, secondo il punto di vista dei vincitori, sono puntualmente riferite da vari storici, di cui se ne ricordano alcuni, quali Osvaldo Perini (La spedizione dei Mille – storia documentata della liberazione della Bassa Italia), Giovanni Delli Franci (Cronica della campagna d’autunno del 1860, fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano), Domenico Capocelatro Gaudioso (1860, crollo di Napoli capitale), Charles Stuart Forbes (The campaign of Garibaldi in two Sicilies), Giuseppe Bandi (I Mille, quei ragazzi che andarono con Garibaldi), Piero Pieri (Storia Militare d’Italia), Filippo Curletti (La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia), Alessandro Dumas (I garibaldini), Denis MacK Smith (Garibaldi), G. M. Trevelyan (Garibaldi and the making of italy), D. Oddo (I Mille di Marsala). Anche “Gli Acta del convegno nazionale di storia militare del 10.10.2007” (Giuseppe Garibaldi, l’uomo, il condottiero, il generale) e “Gli atti del convegno nazionale Cism del 9 e 10 novembre del 2010” (Il Risorgimento e l’Europa: Attori e protagonisti dell’Unità D’Italia nel 150° anniversario) seguono il medesimo canovaccio.

La cronaca storica degli autori citati, eccetto qualcuno, come il Bandi, appare più il racconto di fatti riferiti da altri che non il resoconto di vicende personalmente vissute: tutto raccontato secondo la retorica risorgimentale, descrivendo le operazioni belliche, con diverse parole, ma seguendo sempre la medesima trionfale dinamica di svolgimento.

Invece, è mio intendimento, riportare la testimonianza di un cappellano militare dell’esercito borbonico che seguì da vicino le vicende belliche, dalla Sicilia fino a Gaeta: pur essendo di formazione liberale in giovane età e, quindi, potenzialmente critico nei confronti della monarchia borbonica, riuscì a darci un racconto neutrale dei fatti di cui fu testimone oculare. Proprio dai bastioni di Capua ci rassegnò una dolorosa cronaca di una guerra fratricida.

Il cappellano militare si chiamava Giuseppe Buttà ed il libro da cui sono tratti alcuni brani, testualmente riportati, si intitola “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”, del quale si raccomanda la lettura, in quanto, rispetto agli altri, fornisce un racconto equidistante, diremmo bipartisan, mutuando l’attuale linguaggio.

Del Buttà ci limitiamo a riportare ciò che vide il 19 settembre 1860, giorno in cui, come un imparziale cronista, tant’è che compartecipava anche al dolore delle vittime nemiche, narrava le follie di quella guerra anomala. Si trovava sugli spalti della fortezza capuana e da una privilegiata posizione potette seguire, quasi come un basito spettatore, la sanguinosa battaglia che si svolgeva nel sottostante piano di campagna. Non riferì il fatto d’armi parteggiando per una delle due parti; anzi evidenziò il coraggio dei garibaldini che avanzavano speditamente verso la fortezza di Capua, benché non potessero fruire di alcuna protezione, essendo l’antistante pianura perfettamente piatta e priva di qualsivoglia riparo, tant’è che veniva utilizzata come poligono militare (in atto, la zona si presenta completamente modificata ed irriconoscibile per la presenza di frutteti, per la gran parte, e la edificazione, nella seconda metà del decorso secolo, di un grosso parco di edilizia popolare).

Ecco il racconto del Buttà: “La lotta era disuguale; i regi (i soldati borbonici) combattevano uno contro cinque, nonpertanto opposero una valida resistenza, e diedero indubitati segni di bravura. Però nel combattimento si ritiravano sempre per far uscirei garibaldini allo scoperto, dapoiché costoro combattevano da dietro i pioppi (che si trovavano al limite estremo del poligono). Nell’oste garibaldina si era ad arte sparsa la notizia, che i cannoni della piazza erano carichi a polvere solamente, che si sarebbe fatto un simulacro di resistenza, e, quindi, il Generale Governatore avrebbe schiuse le porte di Capua a Garibaldi. ….. Quindi appena i regi ripiegarono combattendo verso gli spalti della fortezza, i garibaldini s’inoltrarono dalla parte di San Tammaro e di Santa Maria, e con audacia si cacciarono nel poligono detto degli armeggiamenti, o Campo di San Lazzaro, ove non sono né alberi né altri ripari. Quel giorno, chi per curiosità, chi per dovere, tutti eravamo sopra i bastioni di Capua a guardare quell’attacco. Io quando vidi avanzare alla corsa i primi garibaldini, e vidi puntare contro di essi i cannoni carichi a mitraglia, fui assalito da un palpito senza pari; ero convulso. Avea veduto centinaia di morti e feriti a Palermo, e più in Milazzo; vidi poi altre ecatombi umane il primo ottobre, ed in Gaeta, e non provai strazio di cuore pari a quello che mi assalì il 19 settembre! La ragione si è che in quella giornata io non correa alcun pericolo: sul campo di battaglia, quando siamo esposti al pericolo, la morte dè nostri simili ci fa poca impressione perché viene attenuata del proprio cimento. Io dal fondo dell’anima compiangea quei giovani illusi, che per soddisfare una idea ambiziosa, di qualche furbo che in quel momento poltriva deliziosamente, si lasciavano uccidere. Pensava e compiangea anche i miseri genitori loro che avrebbero avuto massacrati i figli, per far nome ad un Garibaldi, il quale non era, secondo D. Liborio Romano, che semplice strumento della politica onnipotente delle due grandi potenze, Francia ed Inghilterra: cioè di Napoleone III e di Lord Palmerston! Quando i garibaldini giunsero in mezzo al poligono, le batterie Sperone, Olivares, Conte Aragona, Castelluccio e S. Amalia tirarono contro di essi a mitraglia …..! Io rivolsi inorridito altrove i miei sguardi alla vista di tanto scempio …..! Pochi si salvarono, la maggior parte feriti dietro la chiesetta di San Lazzaro che trovasi quasi nel centro del Poligono: alcuni non trovando altro scampo si avvicinarono più alla piazza e si salvarono nei fossati, chiedendo pietà a’ soldati, e pietà ottennero: altri infine fuggirono verso Santa Maria ….. Giovani italiani, miei cari compatrioti, se voi aveste veduto quel ch’io vidi il 19 settembre sul Poligono di Capua, si dileguerebbero tutti i vostri sogni di gloria. Voi da bravi mi risponderete: è bello morir per la patria. Sì, avete ragione, ed anche io vi seguirei per la parte che mi riguarda: Ma per la patria …..! E non già per essere vittima della politica onnipotente di un Cavour, di un Palmerston e di un Napoleone III”.

Il cappellano militare Buttà si sforzava anche di compenetrarsi nelle ragioni dei garibaldini, meglio di quella parte di essi ai quali, in buona fede, fu fatto credere di combattere e di morire per la patria, e, invece, inconsapevolmente, lo facevano per soddisfare l’ingordigia territoriale della Casa Savoia, perché, in realtà -in quella guerra mai dichiarata, ecco perché anomala- erano proprio i loro contendenti, cioè i soldati borbonici, a guerreggiare per la difesa della loro terra.       

Dal testo riportato emerge che la fortezza di Capua era pressoché circondata -cinturazione completata con l’arrivo dal nord dell’esercito sardo- e, quindi, ormai, con rapporti di forze completamente a favore dell’Esercito Meridionale e di quello sardo, in quanto Francesco II, lasciati circa 10.000 soldati a Capua, dislocò il resto delle proprie forze tra il Garigliano e Gaeta, allo scopo di scongiurare un possibile accerchiamento.

Dal racconto del Buttà emerge, altresì, che, anche a Capua, i garibaldini confidarono sulla carta del tradimento degli alti quadri militari dell’esercito, come era avvenuto in altre parti del regno borbonico, e soprattutto nella Reale Marina.

La popolazione di Capua, sottoposta a continui bombardamenti, intensificati di molto, allorché l’Esercito Meridionale fu soppiantato da quello sardo, fu costretta ad implorare l’arcivescovo del tempo di intercedere presso il Governatore della piazzaforte affinché richiedesse la resa al comandante dell’esercito sardo assediante. Una scrittrice francese, Louise Colet, al seguito dei garibaldini, nel libro “Naples sous Garibaldi: Souvenirs de la guerre de l’indépendance”, annotò alcuni degli obiettivi colpiti dalle granate nemiche: “All’interno della città  i danni causati dall’assedio erano più evidenti: i vetri delle finestre della maggior parte delle case erano rotti, diverse facciate avevano buchi causati da colpi di obice, una bomba era caduta nel teatro (l’attuale teatro Ricciardi), un’altra nella sagrestia della cattedrale (la cattedrale fu poi abbattuta dagli americani, durante la seconda guerra mondiale: a Capua, in epoca moderna, i maggiori danni li hanno fatti sempre i cosiddetti liberatori), un’altra nel palazzo del cardinale arcivescovo, che, si dice, fu uno dei primi, nonostante la sua devozione al re di Gaeta, a convincere il generale De Cornè a capitolare). Non ebbe luogo alcun tradimento, anche quando la città di Capua era in grave sofferenza a causa del perdurante assedio patito.

Lo stesso Garibaldi riteneva impopolare ed in opportuno il bombardamento alla fortezza di Capua, per il rischio di coinvolgere la popolazione civile. Ecco cosa disse l’eroe dei due mondi, nelle sue “Memorie autobiografiche: ”Ma pur troppo la maggior parte dei combattenti alle falde del Tifata, erano figli di questa terra infelice, spinti a macellarsi reciprocamente. ….. Da Annibale, vincitore delle superbe legioni, ai giorni nostri le campagne campane, non avean certo veduto più fiero conflitto, ed il bifolco, passando l’aratro su quelle zolle ubertose, urterà, per molto tempo ancora, nei teschi dalla rabbia umana seminati”.

La storia dei fatti passati è immodificabile: però, noi dobbiamo fare di tutto per chiarire le vicende storiche e, soprattutto, abbiamo il dovere di non farle cadere nell’oblio. Perché ho richiamato lo stato di degrado dei bastioni e dei fossati? Semplicemente per far capire quanto sia indecoroso e controproducente aver così poca cura di quelle vestigia che sono state mute testimoni di una serie di battaglie epocali da cui, poi, è dipeso il futuro della nascente Italia. L’epopea garibaldina si è conclusa a Capua ed i libri di storia riconducono il consolidamento del processo di unificazione della penisola italiana proprio alla sconfitta del Borbone nella battaglia del Volturno, sebbene continuassero ad essere ancora attive, per alcuni mesi, le fortezze di Gaeta e di Messina. Sfruttiamo a nostro vantaggio questo importante episodio storico, tra l’altro noto a tutti gli italiani scolarizzati, per la grossa valenza simbolica che lo connota!

I bastioni, contraddistinti da idonea cartellonistica, dovrebbero essere completamente bonificati e resi accessibili. Altrettanto dicasi dei fossati, da rendersi fruibili in sicurezza in tutte le stagioni dell’anno. Puntellare e rafforzare i cunicoli ed i passaggi sotterranei. Riqualificare la villa comunale, inserita già nel complesso teatro delle fortificazioni. In quel contesto vedrei realizzati dei virtuosi circuiti turistici che sappiano fondere la storia con le opere architettoniche presenti sul territorio. Finanche le pietre incastonate nei vecchi palazzi, provenienti in genere dall’anfiteatro della vecchia Capua o tratte da antiche tombe ci sanno parlare del passato e potrebbero divenire oggetto di un seminario didattico itinerante: bisogna avere, però, la sensibilità di saperle (e volerle) leggere: Saxa loquuntur.

Con i finanziamenti pubblici, quando disponibili, bisogna dare concretezza ad un piano di largo respiro che consenta il recupero, sotto il punto di vista turistico, della città di Capua, ricca di un importante museo e di innumerevoli chiese, tutte meritevoli di attenzione. 

La ricchezza di un paese può provenire dal tessuto produttivo, ma anche dal turismo. Se il primo stenta a rilanciarsi, in questo periodo di congiuntura negativa e a causa di una globalizzazione sempre più asfissiante, stimoliamo almeno il secondo e cerchiamo di realizzare un sogno: restituire a Capua la gloria passata, con ritorno, quindi, di immagine per la città e di profitto materiale per i cittadini.

Caro lettore nella prossima settimana ti spiegherò perché i fronti belligeranti contrapposti su cui erano dislocati l’Esercito Meridionale (i garibaldini) e l’esercito borbonico hanno prodotto una curiosa ricaduta sul piano della toponomastica stradale e non solo.

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