CAPUA ( Antonio Sferragatta) – Una “Commissione militare residente in Capua”, dell’esercito francese di Gioacchino Napoleone, ”principe francese e grande ammiraglio dell’impero, re delle Due Sicilie”, in data 26 aprile 1810, condannò a morte alcune persone, imputate del reato di brigantaggio (nella foto di testa, la sentenza in copia, ritratti di Gioacchino Murat e la sua camera da letto nella Reggia di Caserta). Tale evento è poco noto o non conosciuto affatto. E’ stato riportato per esteso sia la denominazione della speciale commissione deputata al giudizio di particolari fattispecie criminali che il titolo assunto dal Murat (al nome di Joachim Murat venne, infatti, aggiunto quello di Napoleone, in seguito al matrimonio con la sorella minore di Napoleone Bonaparte), allorché per concessione di Napoleone fu nominato re di Napoli. Il processo davanti alla Commissione militare, composta da ufficiali dell’esercito francese, tra cui il Comandante della Piazza di Capua che la presiedeva, si svolse a Capua, ma il reato in ordine al quale si procedeva era stato posto in essere a Montaquila, che a quel tempo faceva parte del circondario di Venafro, provincia di Terra di Lavoro (vecchio nome della provincia di Caserta, in passato molto più estesa). I capi di accusa erano diversificati. Alcuni – Nicola Riccio e Tommaso De Risio – erano stati accusati di aver dato asilo ai briganti Giacomo Varone e Damiano Volpe. Altri imputati – Vincenza Bernardo, moglie dell’ucciso brigante Giacomo Varone, e Antonia Picciani, moglie del pregiudicato Damiano Volpe– furono accusati di aver somministrato dei viveri ai loro mariti, esigendo i beni di vettovagliamento, anche con la minaccia, dagli abitanti del detto comune di Montaquila. Infine, Margherita Fiacchini era stata accusata di aver somministrato dei viveri al suddetto Giacomo Varone, suo figlio. Nel corpo della sentenza si legge che “terminata la lettura (dei capi di accusa), il presidente ha ordinato di introdurre gli accusati, i quali sono stati introdotti liberi, e senza ferri, avanti la Commissione Militare“. Dalla lettura della sentenza si deduce che gli imputati furo compiutamente identificati, finanche con l’indicazione delle loro caratteristiche antropometriche. Dopo aver sentito da ciascuno degli imputati le argomentazioni addotte a discolpa, che, tra l’altro si rimettevano alle conclusioni del difensore, il presidente invitava i vari componenti della Commissione a fare le loro osservazioni e domande. Terminata la fase, per così dire dibattimentale, per mutuare la terminologia giuridica attuale, il Presidente della Commissione sottoponeva la posizione degli imputati al vaglio di ciascun componente, iniziando dall’ufficiale avente il grado più basso (il presidente si esprimeva per ultimo), ponendo a ciascuno di essi una domanda precisa: “E’ egli colpevole?”. La Commissione Militare deliberò a porte chiuse e pronunciò all’unanimità la condanna a morte per i reati ascritti a Nicola Riccio, Tommaso De Risio, Vincenza Bernardo e Antonia Picciani, nonché al pagamento delle spese del processo. Nel corpo della sentenza veniva riportato il capo di accusa anche per quanti avevano favorito la latitanza dei briganti: “Tutti quelli, che dopo la pubblicazione del decreto 1 agosto 1809, avranno dato asilo e somministrato volontariamente viveri, armi e munizioni ai briganti, saranno riguardati come tali, e trattati nella medesima forma”. Si riporta per esteso il dispositivo della condanna a morte dei briganti e di quanti avevano favorito la loro latitanza, per la parte che ne indica le modalità di esecuzione: ”La suddetta Commissione Militare ordina che i detti Riccio, De Risio, Bernardo e Picciani siano afforcati sulla pubblica Piazza del Castelluccio e le loro teste recise siano mandate a Montaquila ed esposte al pubblico per restarvi ad esempio, de’ mali intenzionati”. Soltanto uno degli imputati venne assolto. Infatti, “la Commissione Militare ha dichiarato all’unanimità la nominata Margherita Fiacchini non colpevole” e l’ha assolta dalle imputazioni a lei addebitate, ordinando che fosse subito posta in libertà. La lettura della sentenza ci suggerisce alcune riflessioni. In via preliminare si fa osservare che nonostante si trattasse di una giurisdizione speciale, davanti ad una Commissione militare, venivano riconosciuti il diritto al difensore ed al contraddittorio. Inoltre gli imputati comparivano davanti alla Commissione militare “liberi e senza ferri”, modalità che tuttora in molti paesi del mondo, anche moderni e con costituzioni democratiche, non vengono accordate. Infine, molto opportuna appare la procedura seguita per la formulazione finale del giudizio, in quanto era previsto che i voti fossero raccolti “incominciando dal grado inferiore al superiore, votando per ultimo il Presidente”. E’ da presumere che quella particolare modalità nel raccogliere i giudizi, i cosiddetti voti, avesse lo scopo di scongiurare possibili condizionamenti degli ufficiali sottoposti, ovvero inferiori di grado, da parte dei gradi superiori, per un prevedibile metus reverentialis, cioè per un timore reverenziale. L’impiccagione, con a seguire la recisione della testa, per la successiva esposizione di essa nel luogo di abituale dimora, come monito per gli abitanti della collettività di provenienza del condannato, ci appare molto crudele, anche se soltanto circa cinquanta anni dopo, all’indomani della spedizione dei Mille del 1860, a seguito dell’unità d’Italia, con la recrudescenza del fenomeno del brigantaggio nelle regioni meridionali, la famigerata legge Pica riuscì a fare anche di peggio. Una puntualizzazione merita anche il luogo in cui quella sentenza di morte venne eseguita: “Piazza del Castelluccio”. Quello slargo, compreso attualmente tra la via Palasciano e via Pier delle Vigne, fino agli anni sessanta/settanta del decorso secolo, era destinato ad accogliere le giostre durante la ricorrenza del Carnevale. Poi l’area fu destinata a parcheggio sotterraneo e a zona ricreativa, con esercizio di ristoro: vi si affaccia il Liceo Statale Salvatore Pizzi, frequentato da migliaia di studenti. Eppure, soltanto poco più di duecento anni addietro vi si eseguivano le sentenze di morte per fenomenologie criminali molto diffuse nel nostro territorio e delle quali si è perso persino la memoria.
UNA COPIA FOTOSTATICA DELL’ORIGINALE DELLA SENTENZA
